L’Australia, praticamente un continente, grande oltre 7,5ML di km (circa 25 volte l’estensione del territorio italiano), ma con soli 25,6ML di abitanti, di certo non è un punto di riferimento pe quanto riguarda l’economia. La sua forza è data dalle risorse naturali (non a caso l’industria mineraria è il settore trainante, grazie anche alla vicinanza con la Cina, tra i principali importatori delle sue risorse), ricchissima com’è di minerali e materiali ferrosi. Una “dote” che permette al Paese “down under”, pur avendo solo lo 0,3% circa della popolazione mondiale, di essere tra le prime 15 economie a livello globale, con un reddito pro-capite tra i più alti al mondo.
Eppure, per una volta, grande era l’attenzione degli economisti e degli “addetti ai lavori” per le decisioni della Banca Centrale Australiana, chiamata a decidere il da farsi in tema di politica monetaria.
Dopo ben 10 strette consecutive, che hanno portato il tasso di riferimento al 3,6%, ieri l’Istituto Centrale ha lasciato invariate le cose. La decisione di “alzare il piede dall’acceleratore” deriva dal fatto che, oltre ai primi segnali di rallentamento economico, le autorità monetarie locali, confermando peraltro un “manuale di scuola”, hanno ribadito che le ripercussioni delle politiche monetarie (nella fattispecie, appunto, le manovre sui tassi) non sono mai immediate, ma si manifestano con una discrasia temporale di qualche mese. Quindi, prima di “calcare” nuovamente la mano, si vogliono verificare quali saranno, nel breve, le conseguenze dei precedenti rialzi. Oltre al fatto che anche dall’altra parte del mondo sono evidenti i segnali di un rallentamento dell’inflazione (scesa a febbraio al 6,8%), un andamento piuttosto simile a quanto sta accadendo in Europa e in altre economie sviluppate.
La decisione della Bank of Australia, quindi, potrebbe fare da “apripista” per le altre Banche Centrali che nelle prossime settimane saranno chiamate a fare ulteriori scelte.
Alcune situazioni che si sono venute a creare nelle ultime settimane (lo “stress” di alcuni Istituti di credito, con la “fuga” dei depositi da parte della clientela, i primi segnali di un rallentamento economico, come anche i dati americani di ieri sembrano confermare – per es, il calo, per la prima volta da molti mesi, delle offerte di lavoro, combinati con un’inflazione che appare in rallentamento) possono far pensare che sia arrivato il momento di politiche più “accomodanti”. Questa, per es, sembra essere la chiave di lettura del mercato obbligazionario, che vede rendimenti in calo, negli ultimi giorni, sulle varie durate (ne è una conferma l’andamento del governativo USA, con cali evidenti su tutta la “curva”, dal brevissimo termine ai 10 anni e oltre). A mettere il bastone tra le ruote potrebbero intervenire fattori nuovi: tra questi forse il più concreto riguarda il petrolio, dopo l’ormai nota decisione da parte dei maggiori Paesi produttori di ridurre le estrazioni, a partire da maggio, per 1ML di barili/giorni. Le conseguenze, infatti, non si sono fatte attendere, con i prezzi schizzati, in 2 giorni, di oltre l’8%. Il rischio, evidentemente, è contribuire ad un “colpo di coda” dell’inflazione, che costringerebbe chi di dovere a rivedere le proprie strategie.
Al petrolio che sale, fa da contraltare il gas che scende. Ieri, allo snodo di Amsterdam, il megawattora ha fatto registrare un calo a € 45,47 (– 6,34%). Siamo ancora lontani dai prezzi pre-covid, quando le quotazioni erano tra i 12 e i 15 €, ma lo siamo ancor di più dai picchi devastanti della scorsa estate. La “normalità” dei prezzi consente risparmi evidenti: dopo il calo delle tariffe elettriche (– 55%), continua il calo anche delle bollette del gas: famiglie e imprese, per il 3° mese consecutivo, vedranno i prezzi scendere in modo consistente . Se a gennaio il calo era stato di ben il 34%, quello di marzo (- 13,4%) sarà praticamente in linea con quello di febbraio (- 13%), consentendo un ulteriore risparmio annuo medio per famiglia pari a circa € 162.
Dopo 4 sedute consecutive in rialzo, ieri sera, a Wall Street, lo S&P 500 ha fatto segnare un calo dello 0,6%.
Una discesa che questa mattina induce alle vendite gli operatori giapponesi: a Tokyo l’indice Nikkei scende di circa l’1,65%, accompagnato, ad Hong Kong, dall’Hang Seng ( – 0,66%).
Chiusi per festività i mercati cinesi.
Petrolio, come detto, sempre “sugli scudi”, con il WTI a $ 81,03.
Gas naturale Usa debole, analogamente a quello europeo, con il prezzo a $ 2,084 (- 1,19%).
Svetta invece l’oro: favorito dal contemporaneo calo dei rendimenti obbligazionari e del $, ieri si è avvicinato ai record storici, superando i $ 2.000: questa mattina consolida ulteriormente la posizione, a $ 2.041,80 (+ 0,08%).
Futures al momento poco mossi ovunque.
Spread in leggero rialzo (186,2 bp): le voci sulle difficoltà a “mettere a terra” il PNRR probabilmente in questo senso non aiuta, facendo nascere qualche perplessità agli investitori.
Rendimento del BTP al 4.10%. A proposito di BTP, da segnalare l’emissione, avvenuta ieri, di un nuovo BTP “green”, con scadenza ottobre 2031. L’operazione è stata molto apprezzata dagli investitori, con richieste superiori a € 52MD a fronte di un’offerta di € 10MD, con un rendimento del 4,056% (il titolo è stato emesso ad un prezzo di 99,888, con una cedola “facciale” del 4%).
Treasury a 3,35%, sui valori di ieri.
€ sempre forte, ormai ad un passo da 1,10 vso $ (1,0953).
Segnali di forza per il bitcoin, tornato ben oltre i $ 28.000 (28.592).
Ps: ieri, in un anonimo Palazzetto dello Sport di Zurigo, si è svolta l’assemblea dei soci del Credit Suisse. L’ultima dopo 167 anni di storia per quella che era la 1° Banca Svizzera. A tenere l’ultimo incontro degli azionisti è stato il Presidente uscente, Axel Lehmann. Nomen omen verrebbe da dire (anche se nel caso della Banca american Lehman Brothers si scriveva con un’unica n).